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Un invito del Tamer Institute for Community Education rivolto agli illustratori e agli autori italiani di letteratura per l'infanzia: donare ai bambini palestinesi illustrazioni, storie, poesie sul tema UNA VITA IMMAGINATA, per sostenerli e aiutarli a superare la disperazione e immaginare una vita serena e dignitosa.

Il nostro dono sarà solo una carezza, un sorriso, dato da lontano nella speranza che possa essere, anche solo per un momento, contagioso. Non vedo altro modo per rispondere a quell’appello se non questo: l’abbandono di uno sguardo adulto e utopico, la consapevolezza di chi sa che una storia se è buona è gradita sempre, anche sotto le bombe, e che serve a tutto e non serve a nulla, come una carezza. (Fabrizio Silei)

mercoledì 13 agosto 2014

Come una carezza

Fabrizio Silei scrive sul suo blog queste interessanti e profonde riflessioni, da leggere. Pensieri che accompagnano anche chi disegna.

Un invito come questo, che mi trasmette Giulia, ha il potere di mettermi in crisi perché, pur capendone il senso e la portata, mette il dito nella piaga di chi, come me, cerca di raccontare delle storie illudendosi (o forse è meglio dire: convinto che) le storie possano in qualche modo cambiare l’altro, il mondo, e anche chi le scrive. E’ una patetica illusione che, tuttavia, si basa su una constatazione di fatto: se le storie hanno salvato la vita a me, possono salvarla anche a qualcun altro. Finisce così che, a costo di apparire patetici, si scrivono le proprie storie e si cerca di scriverle onestamente, dicendo quel che secondo noi va detto in un determinato momento, raccontando le storie che ci vengono a svegliare la notte ed esigono d’essere raccontate, fino a che vengono. Ma le storie che si scrivono possono arrivare a incontrare, nel migliore dei casi, qualche decina di migliaia di lettori. Più spesso meno di diecimila, specie adesso in tempo di crisi. Non hanno niente a che fare con Best Seller o fenomeni culturali internazionali dai quali ci si può attendere una qualche influenza sociale, nei modi di dire, nell’immaginario, o che so io. Sono storie per pochi, spesso spacciate a mano nelle scuole e nelle biblioteche da un gruppo di insegnanti o bibliotecari appassionati e volenterosi. Storie che camminano sul passaparola, che incontrano singoli lettori o gruppi, suscitano discussioni ma, insomma, niente a che fare con fenomeni di massa. Questo da una parte riduce la responsabilità di chi le scrive: non si sarà accusati di aver contribuito alla diffusione di grappoli di lucchetti sui ponti d’Italia, d’aver lanciato mode, causato ondate di suicidi come nel caso del giovane Werther, diffuso il turpiloquio fra i giovani lettori, ecc, ecc.
Anche così, però, raccontare storie è una responsabilità. Le storie sono animali selvaggi, come è stato detto, una volta liberate non si sa che cosa combinino nella vita di chi le legge. Consapevoli di questo si continua a raccontare, ma di fronte alla richiesta di una storia che possa aiutare dei bambini che vivono sotto le bombe si rimane sbalorditi e capita di sentirsi impotenti. Viene da pensare che se le storie potessero tanto, dopo Dostojevski, Brecht, Melville, Conrad, Ungaretti e tutto ciò che è stato scritto di profondo e meraviglioso dall’uomo, come minimo non dovrebbero esserci più guerre. Se, come profetizzò Adorno, dopo Auschwitz la poesia doveva essere impossibile, figuriamoci lanciar bombe sui civili. E, invece, nonostante la pace europea, il progresso delle idee nei paesi democratici e quant’altro, le guerre ci sono ancora e questa di Gaza è solo l’ultima in ordine di tempo. Mi si dirà che purtroppo, certi grandi capolavori della letteratura mondiale che hanno cambiato il nostro modo di stare insieme e guardare al mondo, li ha letti soprattutto chi non aveva bisogno di leggerli. Che i dittatori, i fondamentalisti islamici, i poveri del mondo, i mafiosi e così via, non hanno mai letto nulla di tutto ciò e per questo continuiamo ad andar male. Eppure sono certo che molti politici, venditori d’armi internazionali, capi di stato, industriali, li hanno letti eccome. Solo che non è servito, che vedere un bel film o leggere un grande romanzo non significa automaticamente capire o cambiare. Oggi poi, sommersi di storie come siamo, specialmente noi adulti leggiamo per commuoverci, distrarsi, fare recensioni critiche, dire scritto bene e male, quasi nessuno pensa di incocciare in una qualche verità perché, beh, per quella ci vogliono i grandi classici, morti e sepolti, non dei contemporanei con pagine FB.
Allora, stabilito che la letteratura e le storie hanno cambiato il mondo ma non possono cambiarlo, strano ossimoro che ha probabilmente a che fare con lo zoom del nostro obiettivo storico mentale, si può comunque giungere a una distinzione, abbastanza cavalcata, fra storie “impegnate” e storie ” divertenti”, oppure fra “storie belle” e ” storie commerciali”, salvo poi, ed è il destino di ogni storia, passare da l’una all’altra categoria a seconda dei tempi e del momento. Capita così che i cinepanettoni di Lino Banfi diventino con il tempo un classico della commedia all’italiana e della comicità in percorsi d’essai per nostalgici intellettuali della propria pubertà anni 80, e che Geronimo Stilton possa divenire un novello Ulisse per chi lo legge oggi bambino e domani lo ricorderà da una cattedra di letteratura omerica. Tutto può essere, ma certo è che le storie non sono tutte uguali. Le storie servono a tutto e non servono a nulla, e l’unica distinzione che davvero regge alla fine è quella fra storie belle e storie brutte.
Questo per dire che prendere su di sé l’impegno di scriver una storia per qualcosa, tanto più per alleviare le sofferenze o ridonare il sorriso a qualcuno, è il modo sbagliato di di mettersi a raccontare. E’ un modo adulto, meccanicista, nel quale tutti siamo immischiati. Scrivere storie per questo o quello scopo è sempre un modo sbagliato di cominciare a raccontare, e farlo per Gaza e i suoi bambini che si svegliano piangendo sotto le bombe, lo sarebbe ancora di più. Le notizie che abbiamo lasciano davvero senza parole, impotenti.
Rammento che un giorno mia moglie Francesca tornò dal lavoro raccontando del difficile momento che stava passando un ragazzino al quale stava morendo il padre in ospedale. “La madre mi ha chiesto un libro per aiutarlo, che libro potremmo fargli leggere?” Mi domandò. “C’è una storia che possa aiutarlo a superare questo momento?”. Di storie che parlano di genitori malati ne ricordavo diverse, da “Dieci minuti dopo la mezzanotte” a “Un’estate di quelle che non finiscono mai”, non ero certo però che una storia che trattasse di ciò che lui stesso stava vivendo fosse la cosa giusta da fargli leggere e potesse esseregli d’aiuto. Così chiamai Roberto Denti alla libreria dei ragazzi di Milano e gli feci la stessa domanda che mi aveva posto mia moglie. Roberto che di storie ne aveva lette a milioni mi rispose: “Chiedetegli che libri gli piacciono e regalategli quello con più pagine che trovate, così che almeno durante la lettura possa non pensare a ciò che sta vivendo”.
Eppure Roberto era tutt’altro che un teorico del disimpegno. Sapeva però che quella era la domanda sbagliata. Roberto mi ha insegnato a non pensare a una causa effetto immediata quando si tratta di storie. Una storia non è un’aspirina, non ci sono storie per questo e per quello. Le storie divertenti possono essere più “impegnate” delle troppo smaccatamente impegnate. Che quel che conta è che siano buone storie, bene scritte e capaci di rapire e affabulare il lettore.
Anche il bambino più solo e sconvolto può sorridere e gioire di fronte a un bel disegno e una buona storia, non è necessario che parli di guerra, mondo migliore, pacificazioni, amori contrastati, futuri idilliaci. L’importante è il dono, l’occuparsi di lui con una storia o un’immagine dotata di senso e bella. Ciò non salverà il mondo, probabilmente il bambino continuerà ad avere paura e svegliarsi la notte. Il nostro dono sarà solo una carezza, un sorriso, dato da lontano nella speranza che possa essere, anche solo per un momento, contagioso. Non vedo altro modo per rispondere a quell’appello se non questo: l’abbandono di uno sguardo adulto e utopico, la consapevolezza di chi sa che una storia se è buona è gradita sempre, anche sotto le bombe, e che serve a tutto e non serve a nulla, come una carezza.


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